Sono poche le cose di cui sono certa: dello sguardo preoccupato e rassegnato del mio migliore amico quando dico “devo raccontarti una cosa” e di come lo guardo io quando, dopo avermi ribadito la realtà dei fatti, rispondo “hai ragione, hai ragione, lo so che hai ragione”. Dei sorrisi dei miei nipoti quando gioco con loro, della reazione di tutti i miei amici quando apro troppe parentesi e della telefonata notturna di mia madre quando ritorno in Puglia.
Ci sono poche cose di cui sono certa, una di queste è che il caffé, preso al mattino per cercare di svegliarmi o dopo il lavoro, quando decido che merito un premio, è piacere solitario che merita grande attenzione e completa immersione.
L’odore, adrenalina pura, ti sorride, ti fa sentire viva. Poi arriva la tazzina, calda e fumante, e sono certa che finirà presto e che bevendolo avrò subito voglia di ordinarne ancora. Sono anche certa che bere troppi caffé aumenta il mio essere noiosa e petulante e il grado di nequizia in chi mi è attorno. Così cerco di trattenermi, sfioro con le labbra la tazzina, la inclino leggermente e lascio che solo una piccola parte del caffé vada a bagnare la bocca ancora chiusa. E sebbene mi riprometta di farlo durare più a lungo non ci riesco, la testa si reclina, le labbra scorrono sulla tazzina, che alzo fino a coprire il naso: mi immergo.
Sono certa che quando rimetterò la tazzina sul bancone mi dispiacerà, valuterò la possibilità di prenderne un altro e boccerò quest’idea accontentandomi di succhiare il sapore che ancora resta attaccato al labbro superiore.
Sono anche certa che se guarderò il barista questo si renderà conto della traccia che il caffè lascia su di me. Allora mi sorriderà e si indicherà il naso con l’indice, toccandosi la punta con tre colpi. E a me non resterà che prendere una salvietta e strofinarmi il naso, poco sopra la punta.