Non pensavo che, pur restando seduta su una panchina, si potesse andare così lontano. Piove, ma per fortuna ho l’ombrello e una mente sinaptica. Che poi è anche bello aprire le parentesi: sono i particolari che rendono viva una storia, danno senso; scendono giù come questa pioggia, goccia a goccia. Sembra che non abbiano consistenza, ma fanno rumore. Lo scroscio aumenta, invita, invoglia e non è possibile non allungare la mano. Il vento, poi, ci mette il suo, così quel che raccogli è altro. Però non scordi, li vedi, li senti. Accarezzano il viso, si infilano nella maglia, scendono sui jeans e restano lì sull’asfalto.
Li riconosci in una pozzanghera, li guardi di rimando, mentre aspetti che spiova. Alla fine non c’è fretta, qui, sotto il balcone, e c’è altro di cui discutere, da approfondire. Qualcuno ha fretta? Non posso crederci, non è naturale: il tempo non esiste. Ma gli sguardi straniti sì, così come i sorrisi sornioni. Pensavo fosse un tormentone, lo sguardo impaziente, le battute sulla mia logorrea, i sospiri rassegnati, l’immancabile “e quindi?” alla fine di ogni mio aneddoto. Mi ha sempre divertito aprire le parentesi e osservare le reazioni. Adesso, però, ho capito cosa si prova a stare dall’altro lato. Non me ne ero mai accorta prima.